Figlicostituenti
29 Aprile 2020
Lo stage extracurricolare coinvolge oggi circa 350.000 giovani italiani.
Questo non è considerato un contratto di lavoro, ma un percorso formativo della durata massima di 6 mesi e prevede un rimborso spese variabile (fra i 300 e gli 800 €). In Italia non esiste infatti una normativa unica per quanto riguarda gli stage extra-curricolari e i tirocini, la cui gestione e regolarizzazione è stata delegata alle regioni.
Questo fa sì che ci siano disuguaglianze nel modo in cui questi vengono gestiti: in tempi di non emergenza queste differenze riguardavano principalmente la retribuzione, definita “rimborso spese”, benché in alcune regioni non arrivi nemmeno a coprire il costo dei trasporti o di una stanza in affitto.
Dall’inizio della crisi COVID, inoltre, questo ha comportato un modo molto diverso di gestire i tirocini a livello nazionale, creando confusione: in alcune regioni è stato possibile proseguire fin da subito in modalità smart-working, in altre è stato ammesso solo in seguito; nonostante questo, quegli enti che non hanno potuto attivare subito questa possibilità o non ne hanno i mezzi, hanno optato per la sospensione senza retribuzione o l’interruzione del percorso formativo.
Questo contesto già in tempi “normali” non concedeva le stesse opportunità a tutti: non solo è quasi impossibile, per uno stagista, mantenersi da solo persino nella propria città di origine, ma, per chi viene da contesti familiari economicamente deboli, diventa difficile poter cogliere opportunità formative che portino lontano da casa.
A causa di questa scarsa retribuzione e del fatto che spesso non si ha garanzia di poter continuare il proprio percorso dopo sei mesi, è impensabile per un giovane poter fare programmi sul lungo termine.
Il rimborso spese previsto dallo stage è solo un rimborso parziale delle spese che dobbiamo effettivamente sostenere per vivere. In più, questi rimborsi vengono regolarmente tassati ma non permettono di versare i contributi.
Questi stage prevedono molto spesso lo stesso numero di ore di lavoro di un contratto vero e proprio (38 o 40 ore settimanali), ore però che vengono però retribuite molto meno, e non prevedono diritti quali la malattia (non retribuita), le ore di permesso, le ferie. L’assenza di diritti e doveri va in entrambe le direzioni: a noi stagisti è permesso assentarsi o interrompere la collaborazione in qualsiasi momento, ma viceversa anche il soggetto promotore può farlo.
In tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo questo si è dimostrato essere un’arma a doppio taglio, con tantissimi enti e aziende che, indeboliti dall’emergenza, hanno deciso di sospendere gli stage in corso, perlopiù senza retribuzione, o di interrompere anticipatamente i progetti formativi.
All’interno del Decreto Cura Italia la categoria degli stagisti non è ancora stata inserita fra quelle aventi diritto ad avere un sostegno finanziario dallo Stato, sebbene una modifica in questo senso sia stata proposta da alcuni esponenti sia della maggioranza che dell’opposizione, per ora è caduta nel vuoto rimanendo allo stato di ordine del giorno.
Noi giovani dunque siamo spesso costretti a rimanere all’interno del nucleo familiare o a dipendervi economicamente per un lungo periodo quando possibile. E va da sé che in questo momento in cui molte famiglie stanno vedendo ridotti i propri introiti non è semplice per un giovane, magari uscito di casa da molto tempo, tornare a gravare sulle spalle dei genitori.
Il problema si poneva anche prima della crisi, dato che per gli stagisti non è prevista, a meno che non sia specificato, l’assunzione al termine del periodo formativo, ma specialmente in alcuni settori questa è un’eventualità rara.
Da questa modalità si instaura un circolo vizioso in cui cadono sia gli individui che gli enti promotori: da un lato i giovani accumulano stage – spesso se ne deve fare più di uno prima di arrivare al livello di esperienza richiesta da molti datori di lavoro — dall’altro i team si trovano a dover cambiare periodicamente collaboratori, perdendo tutto il capitale umano e professionale in cui si era investito. L’assenza di prospettive alla fine dello stage inoltre rende difficile dare un effettivo contributo al proprio team.
Come uscire quindi da questo circolo vizioso? Si potrebbe facilitare l’adozione di contratti di apprendistato, che pur, avendo uno scopo formativo simile allo stage, prevedono condizioni e tutele diverse. Favorendo questa modalità, che dovrebbe avere come naturale proseguimento l’assunzione dell’apprendista, si andrebbe ad eliminare l’utilizzo dei tirocini extracurriculari come strumenti di lavoro a basso costo, dando invece maggiori garanzie a chi si sta affacciando nel mondo del lavoro.
Dal quadro qui presentato derivano diverse implicazioni sociali, alcune delle quali già menzionate come la dipendenza economica dei giovani dalle famiglie, anche per un periodo molto lungo dopo il conseguimento della laurea.
Ciò significa che noi giovani italiani usciamo di casa molto più tardi rispetto ai coetanei di altri Paesi, possiamo permetterci, contando esclusivamente sulle proprie forze, una minore mobilità sia intra che extra italiana, e il nostro potere contrattuale e di acquisto è basso e questo va ad incidere su molti altri settori della vita economica del Paese.
Non perché siamo “picky”, come spesso veniamo accusati di essere, ma perché le offerte di lavoro che un neo-laureato può trovare in Italia non rispecchiano le abilità, le competenze e la speranza di costruirsi una formazione professionale adeguata a cui invece, giustamente, si aspira. Per questo chi se lo può permettere decide, in maniera non sempre facile, di fare esperienza lavorativa in altri Paesi, mettendo a frutto le nostre energie e le nostre competenze altrove.
Si calcola che, tra il 2013 e il 2018, i giovani laureati che sono partiti dall’Italia sono stati 200mila. Spesso trasferirsi all’estero rappresenta l’unica via per vedere valorizzati e compensati gli investimenti fatti in anni di studio e formazione sebbene una scelta di questo tipo richieda ovviamente dei sacrifici che non tutti compiono a cuor leggero.
Quello che si richiede sono maggiori tutele e garanzie per la nostra professionalità, che permettano anche di poter fare programmi per il futuro, oltre che il riconoscimento di una maggiore dignità professionale. Come sarà la società di domani, se noi lavoratori di oggi non veniamo tutelati e messi nella condizione di avere indipendenza economica e di costruirci una professionalità?
Elisa Leo, Claudia Valenti, Eugenia Aguilar Jáuregui
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